Un’immagine vale più di mille parole

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Prima della parola, lo sguardo. Compariamo le immagini, senza mai dimenticarci di accostarle. La prima, a sx: “La morte di Sardanapalo” di Delacroix; rilegata affianco invece “La stanza distrutta” di Jeff Wall. Quest’ultimo è un fotografo e nel suo cognome si nasconde una beffa: Wall scatta fotografie e s’interroga sulla natura di esse, non si accontenta di scavalcare mura ma è uno di quelli che vuole distruggerle, e ciò si palesa sulla parete della stanza costruita appositamente per la foto; la distruzione si alimenta di costruzione, esigendo allo stesso tempo un grado minimo di costruzione.

Questo affiancamento tra le due opere c’è stato proprio perché Jeff Wall nella ricostruzione dello scenario si è ispirato alla prima, riprendendone direttamente composizione, forme e colori, dinamicità ma non altri elementi. C’è un’ assenza, mancano le violazioni, mancano le nudità, mancano i corpi. Se con Delacroix il possesso coincide con la distruzione dell’oggetto, Jeff Wall allarga questa narrazione. La foto per volontà dell’autore verrà mostrata infatti attraverso un lightbox, ossia un pannello retroilluminato, un supporto¹, un modello di rappresentazione molto utilizzato nel linguaggio pubblicitario di oggi. La scelta non è casuale, le luci retroattive garantiscono non solo un alto contrasto (migliore visibilità) ma anche e soprattutto una lucentezza tale da rendere l’immagine pubblicitaria una delle più trasparenti, ma comunque non meno autentica².

Sentiamo la necessità di trovare delle immagini meno artificiali, più nitide; con lo sviluppo delle nuove tecnologie il processo di creazione delle immagini si è accelerato, viviamo nel bombardamento, viviamo nella consapevolezza che la verità è immagine e non c’è  immagine della verità. Non possiamo fare a meno delle immagini, non possiamo fermare la loro produzione incessante ma possiamo farla ripartire. Jeff Wall, allora, si pone come un iconoclasta: distrugge un’icona per risignificarla, per ridirigere la nostra attenzione verso altre immagini più recenti, più sacre, più vive. L’immagine così risulterà per costituzione legata alla violenza; la distruzione di un’ opera può produrne volontariamente o involontariamente un’ altra, è tutto in funzione della sua messa in immagine³.

Riporto qui all’attenzione la divisione operata da Bruno Latour nel suo saggio “Iconoclash”, per semplificarla ho realizzato un simpatico schemino:

GRUPPO A

Jeff Wall è nel “Gruppo B”. Gli appartenenti a questo gruppo sono particolarmente interessanti perché si muovono in un moto perpetuo, passano da un’immagine alla successiva, reclamano un mondo pieno di immagini attive, di mediatori in movimento.

È molto sottile il confine tra questi reami, ad esempio un caso liminale potrebbe essere quello di Themroc⁴, dove l’operazione di distruzione nella sua messa in scena, prima ancora di mostrarsi nella sua fisicità è linguistica. Nel film non ci sono dialoghi ma solamente grugniti.

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Per riassumere la trama, cito una locandina spagnola vista a proposito del film: Michael Piccoli è Themroc. Un giorno si sveglia, abbandona il suo lavoro, commette incesto, si ciba di una guardia, trasforma tutto il vicinato in lui. Themroc si rifà primitivo, torna nella caverna. Trasforma tutto il vicinato a sua immagine e somiglianza, ricordando che è la persona umana stessa a essere creata a immagine di Dio. E, sempre considerando come fonte la bibbia, è da sottolineare come tutto il dibattito iconografico sia quindi anche riconducibile allo stesso divieto contenuto in essa, lo stesso condiviso dai più grandi monoteismi: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”. 

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Tralasciando l’aspetto politico e sociologico del film per il quale rimando semplicemente alla sua visione, vorrei rivolgere la mia analisi prima di tutto al paratesto, ed ancora una volta, parlando di trasformazioni: paratesto come ciò che è attorno al testo e lo trasforma in opera, mettendolo al mondo. Non possiamo giudicare un libro dalla copertina ma ciò non ci vieta di considerarne il suo linguaggio, non ci vieta di considerarla come un luogo di alta densità semantica.

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La locandina stessa utilizzata per la commercializzazione del film riprende il graffitismo,  un’ arte parietale, un cave painting più moderno. Il nome “Themroc” non costituisce un nome proprio di persona. Nessun personaggio nel film avrà nome. Themroc è semplicemente il grido primo e primordiale della follia, la disarticolazione del suono, l’immagine scalfita nella roccia e da qui: “Il tentativo dell’uomo di reperire un senso nel disordine magmatico dell’esistenza, di ricondurre tramite le immagini il caos a cosmo”⁵.

Ed è lecito anche domandarsi se queste immagini scalfite sulla roccia dall’uomo primitivo siano figurazioni astratte oppure delle vere e proprie rappresentazioni. Kazimir Malevič può forse rispondere a questo quesito con il suo quadrato nero, per l’appunto un semplice quadrato nero su sfondo bianco. Arte elevata alla meno uno per la critica, un accesso alle forze cosmiche che erano rimaste nascoste nella tradizionale pittura figurativa per l’artista. Eliminando dall’equazione il florilegio di implicazioni e di possibilità su quest’opera, un aspetto del quale non si è tenuto conto è del come questa immagine si sia risemantizzata nel corso del tempo, della sua degradazione dovuta a una cattiva conservazione da parte del governo sovietico. Il quadrato nero non è più un quadrato nero, perde il suo status di icona dell’invisibile per diventare un quadrato con delle crepe.

Tutte le immagini come abbiamo detto sono legate ad una loro materialità e quindi a un loro deterioramento. E non ci si può far nulla, perché pur passando al digitale le immagini non sono ancora immortali – le forme di deterioramento come virus cambiano e si adattano. La perdita del dato, il pervertimento e l’impoverimento operato in maniera volontaria con tecniche specifiche, quali ad esempio il generational loss ma anche il datamoshing (una distruzione indiretta che agisce non più sull’immagine ma sul software di decodifica) sono solo alcuni degli esempi che ci rendono palese quanto le immagini siano così presenti, così importanti, così circolatorie ma anche e soprattutto così fragili. Dobbiamo davvero temerle?

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¹  Ciò che supporta l’immagine, ciò di cui ci si rende conto quando essa si rovina. Definiamo supporto i materiali di varia natura che rendono possibile la visualizzazione di un’immagine concreta, non esclusivamente mentale. Su queste ultime sarebbe possibile un ulteriore riflessione: quali saranno i supporti in grado di inverare un’ immagine mentale?

² Tutte le immagini concrete, tutte le pictures, sono legate ad una loro materialità. Allo stesso modo lo sono anche quelle digitali. Non è vero che le immagini digitali non rappresentano il reale, basti pensare alle riprese delle telecamere di videosorveglianza, ai radar, etc. Le immagini digitali possono essere autentiche o meno quanto tutte le altre. Gli aspetti da indagare sono altri.

³ Nell’attualità per esempio, con uno dei casi più tangibili: si distrugge un oggetto iconico al fine di poter diffondere il video della sua distruzione, impiegando quegli stessi media e quelle stesse sofisticate tecnologie messe a punto dal nemico (che si estenua ad interrogarsi sulle implicazioni etiche e deontologiche della loro trasmissione).

⁴ Themroc, 1973, Francia, un film di Claude Faraldo. Link: streaming.

⁵ Da “Cultura visuale: immagini, sguardi, media, dispositivi”, Libro di A. Somaini e A. Pinotti.

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